La mostra Global Visual Poetry 1950-1980 è concepita per porre in luce il carattere transnazionale della Poesia Visiva, una tra le correnti artistiche più incisive del secondo Novecento, che ha saputo raccogliere l’eredità delle prime avanguardie per aprirsi, sin dall’esordio, al dialogo tra culture e paesi diversi, superando barriere geografiche e identitarie nella prospettiva di un’arte inclusiva e socialmente impegnata. Con oltre duecento opere, l’esposizione propone uno sguardo trasversale sulla ricerca di esponenti legati alle diverse sperimentazioni verbo-visive emerse, su scala globale, a partire dal secondo dopoguerra dalla Poesia Concreta alla Poesia Visiva, dalla Poesia oggettuale alla Nuova Scrittura con l’obiettivo di evidenziare l’affinità e la coerenza di poetica di artisti e artiste attivi in questo filone di ricerca in varie regioni del mondo, al di fuori del canone eurocentrico. La poesia concreta, come affermava, Max Bense nel 1965, “non separa le lingue, ma le unisce, le mescola”, ed è per tale ragione che sin dalle origini questa corrente si è diffusa sul piano internazionale in modo capillare e ha attratto autori operanti in Sud e Nord America, in Germania, Francia, Italia, Svizzera, Portogallo, Cecoslovacchia o Giappone. La mostra pone l’accento, in particolare, sul ruolo cruciale e pionieristico della Poesia Visiva, nelle sue varie declinazioni, nel dibattito sugli effetti sociali prodotti dalla cultura di massa ai tempi del boom economico e sulla posizione critica assunta dai poeti visivi nei confronti del consumismo e delle derive del capitalismo. La precoce attenzione verso l’ambiente e la questione ecologica, le convinzioni apertamente pacifiste, la denuncia della condizione marginale della donna, la critica nei confronti del colonialismo e dell’egemonia dell’Occidente, l’interesse verso gli squilibri economici e sociali legati al miracolo economico sono questioni al cuore della Poesia Visiva, che contribuiscono alla sua attualità e alla sua odierna e crescente fortuna critica. Partendo dalla realtà locale dei propri paesi di origine, gli artisti attivi in questa corrente non hanno mancato di misurarsi con i problemi sollevati dalla globalizzazione e di guardare oltre i confini nazionali, schierandosi contro la guerra in Vietnam o denunciando le condizioni di povertà vissute da popoli oppressi. L’esposizione indaga il carattere interdisciplinare e gli sconfinamenti verbo-visuali sviluppati da questa tendenza: nella Poesia Visiva infatti la parola si fa spazio, immagine e corpo, entra in una dimensione ibrida, basata sull’incrocio tra la qualità visiva, ottico-percettiva, tattile e sonora della parola, al fine di risignificare il linguaggio e offrire nuovi possibili modi di guardare la realtà. L’attitudine sperimentale e l’urgenza di uscire dagli steccati disciplinari sono tratti peculiari della Poesia Visiva, che avvicinano i percorsi dei tanti artisti attivi in Italia a quelli di autori presenti in altri Paesi del mondo all’interno della complessa e ramificata galassia verbo-visuale.
Lucia Marcucci – Pax (1979)
Le istanze decoloniali e pacifiste, insieme all’attenzione per l’ambiente e alla critica al consumismo, sono i temi centrali della mostra: questioni, queste ultime, che nell’orbita della Poesia Visiva vanno di pari passo con la scelta di praticare un’arte della leggerezza, fatta di mezzi semplici, quotidiani, “poveri”, con opere spesso di piccolo formato, facili da disseminare e capaci, anche in virtù di questo, di oltrepassare i canali elitari dell’arte e di sottrare il linguaggio al logorio dell’abitudine per rivivificarlo.
Il percorso espositivo si articola attraverso tre grandi sezioni che, pur intersecandosi tra loro, rispondono alle diverse traiettorie emerse nella più ampia costellazione della Poesia Visiva: la ricerca di matrice tipografico-concreta, dove la lettera si fa materia plastica per costruire complesse architetture grafiche e fitte tessiture di lettere e segni alfabetici; la sperimentazione sul montaggio e il collage, intesa come pratica per criticare, dall’interno, la comunicazione mass-mediatica attraverso l’ironia e lo straniamento; la scrittura-corpo, dove la parola è la traccia palpabile del gesto dell’autore e, come un sismografo, registra l’andamento dei movimenti e le vibrazioni della scrittura manuale. Benché diverse dal punto di vista stilistico ed estetico, queste tre direttrici s’intrecciano, sino talvolta a sovrapporsi, perché condividono lo stesso slancio utopico, teso a riformulare il linguaggio per avvicinarlo alle urgenze della collettività e per sfidare il senso di vuoto proposto dalla ‘società dello spettacolo’. Nella Poesia Visiva, affermava Eugenio Miccini, c’è “una forza che le viene dalla sua utopia, dalla sua previsione ideologica di una nuova dimensione antropologica, dal tentativo, quindi, di riavvicinare e ricongiungere – agendo sulla coscienza dell’uomo – l’estetica e la vita”. Ed è in questo serrato dialogo tra poesia, immagine e utopia sociale che la Poesia Visiva lascia oggi l’eredità forse più preziosa.
(testo di Raffaella Perna)
18 febbraio – 15 giugno 2025
Dicastero per la Cultura e l’Educazione | piazza Pio XII, 3/3 | Città del Vaticano
Interview of Raffaella Perna (curator and art historian) on Lucia Marcucci work. August 11, 2021.
• What does Pop Art mean to Lucia Marcucci? Has she ever considered herself a pop artist? If so, why? Has she ever felt like a member of a group or community involved in Pop Art? Why or why not?
Among the artists involved in the experience of Group 70 – an Italian visual poetry movement formed in 1963 in Florence – Pop Art was considered to be a trend insufficiently critical of consumer culture and capitalist system. The works of Andy Warhol or Roy Lichtenstein were seen more as an acknowledgement of the new visual imagery and consumer culture rather than a critique. The visual references that Pop artists and artists of the Group 70 look to were similar, belonging to the universe of mass culture produced by the economic boom. Lucy Lippard in her now historical book on Pop Art (1966) immediately noticed this affinity. But the use of images from advertising, comics and magazines in Marcucci’s and her fellow artists’ works had a more explicit political purpose. In fact, Italian artists spoke of “semiological guerrilla warfare”, using a keyword coinvented by the group. For this reason, Lucia Marcucci’s work, although formally close to Pop Art experiences, presents more ironic, combative tones and highlights an antagonistic spirit, which is more critical and political. The artist never felt an integral part of Pop Art, which she actually regarded with a certain suspicion.
• What were the sources of her imagery or her pictorial subjects?
The main sources of Lucia Marcucci’s art belong to the mass culture visual sphere: images and slogans of magazines, newspapers, photostories, advertising and cinema. Among other things, she has made a number of artist’s films, including Volerà nel 70 – now very well-known in Italian experimental cinema – using the practice of found footage, which could be considered the filmic equivalent of her images collage. From the 1970s onwards, the use of the body became more evident: for example, in the Impronte series made in the 1970s, Marcucci recalls images of prehistoric Venuses, thus reconnecting with the iconography of the Great Mother.
• Has she ever dealt in your work with major issues and events relating to the period 1961-1973? If so, which ones?
Yes, in her collages Marcucci tackled issues that were central to the politics of the time: there are constant references to imperialism, the Vietnam War, anti-militarism or social issues such as abortion and divorce. Women’s condition is of crucial importance: the artist contested beauty stereotypes to which women’s bodies were forced. In her photographic work “La ragazza squillo”, the artist plays ironically on the double meaning of the word ragazza squillo, which in Italy means prostitute. In “Come ama come lavora” the artist already felt the weight of the stereotype stating that a woman had to be efficient in the public and productive sphere and at the same time devoted to domestic care duties.
• Did the role given to women in the society of that time have an impact on her artistic production and your being an artist?
Yes, Marcucci always spoke explicitly about the difficulty for a woman to make her way in the Italian art world of the 1960s.
• Has she ever received support from galleries, critics, or collectors?
Lucia Marcucci’s work was appreciated from an art critical point of view – I am thinking, for example, of the early support of critics such as Renato Barilli and Gillo Dorfles – but the system of galleries and collectors were not very open to the radical and politically committed experimentation of visual poetry.
• Did she make a living by selling her art or did she do other work (teaching, commissions or other) to supplement her salary?
Lucia Marcucci worked as a teacher.
• As a woman artist, did she ever feel limited in any way at that time as regards the possibilities of being noticed or exhibiting your work?
Marcucci, as I said, has often recalled the difficulty for a woman to establish herself in the art system, but at the same time, she has always felt equal to her male colleagues and has always been reluctant to participate in women-only exhibitions. She only did so in certain circumstances, I am thinking, for example, of some exhibitions curated by Romana Loda or the exhibition Materializzazione del linguaggio curated by Mirella Bentivoglio – another Italian artist linked to visual poetry – as part of the 1978 Venice Biennale. But Marcucci was suspicious of these exhibitions because she considered them to be a sort of ghetto. In her opinion, these kinds of exhibitions did not undermine the subordination of women, but rather, in a way, reaffirmed it. For Marcucci, women had to play on an equal footing with men, even though she was well aware of the enormous difficulties women faced in their daily lives and at work.
• What does she think of that situation today and how does she perceive the renewed interest of the public and critics in your work from that period?
Lucia Marcucci looks forward to this phase of well-deserved critical recognition. She is an artist who has struggled all her life, always maintaining great consistency in her work, and it is an important sign that she is now recognised by national and international critics and historiography. I believe that a crucial role in this process has been played by both the growing interest in female artists, not only in the Anglo-Saxon area, and the recent critical reinterpretation that extends the boundaries of Pop Art to different, non-hegemonic, and more politically committed experiences, such as Visual Poetry.
Intervista a Raffaella Perna (curatrice e storica dell’arte) sul lavoro di Lucia Marcucci. 11 agosto 2021.
Cosa significa per Lei l’arte Pop? Si è mai considerata un’artista pop? Se sì, perché? Si è mai sentita membro di un gruppo o di una comunità coinvolta nella Pop Art? Perché o perché no?
Dagli artisti e le artiste coinvolti nell’esperienza del Gruppo 70 – movimento italiano di poesia visiva formatosi nel 1963 a Firenze – l’Arte Pop era considerata una tendenza non sufficientemente critica nei confronti della cultura del consumo e del sistema capitalista. Le opere di Andy Warhol o Roy Lichtenstein venivano viste più come una presa d’atto del nuovo immaginario visivo e della nuova cultura consumista, che non come una critica. I riferimenti visivi a cui guardano gli artisti Pop e gli artisti del Gruppo 70 sono simili, appartengono all’universo della cultura di massa prodotta dal boom economico. Lucy Lippard nell’ormai storico libro sulla Pop Art (1966) si accorge subito di questa affinità. Ma il recupero di immagini tratte dalla pubblicità, dal fumetto, dai rotocalchi nelle opere di Marcucci e dei suoi compagni di strada ha finalità più esplicite sul piano politico. Gli artisti italiani parlavano infatti di «guerriglia semiologica», usando le parole chiave coniate dal gruppo. Per tale ragione il lavoro di Lucia Marcucci, benché formalmente vicino alle esperienze Pop, presenta toni più ironici, battaglieri ed evidenzia uno spirito antagonista, più connotato sul piano critico e politico. L’artista non si sentiva dunque parte integrante dell’arte Pop, a cui, anzi, guardava con un certo sospetto.
Quali furono le fonti del suo immaginario o dei suoi soggetti pittorici?
Le fonti principali dell’arte di Lucia Marcucci appartengono all’ambito visivo della cultura di massa: le immagini e gli slogan dei rotocalchi, dei quotidiani, dei fotoromanzi, della pubblicità, del cinema. L’artista tra l’altro realizza alcuni film d’artista, tra cui Volerà nel 70 – oggi molto noti nel cinema sperimentale italiano – usando la pratica del found footage, che si può considerare l’equivalente filmico del montaggio di immagini presente nei suoi collage. Dagli anni Settanta si fa più evidente l’uso del corpo: ad esempio nella serie delle Impronte realizzate negli anni Settanta Marcucci richiama le immagini delle Veneri preistoriche, ricollegandosi così all’iconografia della Grande Madre.
Ha mai trattato nel suo lavoro le maggiori problematiche ed eventi relativi al periodo 1961-1973? Se sì, quali?
Sì, Marcucci nei suoi collage ha affrontato temi al centro della politica dell’epoca: nei suoi collage ci sono riferimenti continui agli imperialismi, alla guerra in Vietnam, all’antimilitarismo o a tematiche sociali quali l’aborto e il divorzio. La condizione della donna ha un peso cruciale: l’artista contestava gli stereotipi di bellezza e perfezione a cui il corpo delle donne era costretto. Nell’opera fotografica «La ragazza squillo», l’artista gioca, con ironia, sul doppio senso della parola ragazza squillo, che in Italia significa prostituta. In «Come ama come lavora» l’artista avvertiva già il peso dello stereotipo secondo cui una donna doveva essere efficiente nella sfera pubblica e produttiva e nel contempo dedita alle mansioni di cura domestica.
Il ruolo conferito alle donne nella società di quel tempo ha avuto un impatto sulla sua produzione artistica e nel suo essere artista?
Sì, Marcucci ha sempre parlato esplicitamente della difficoltà per una donna di farsi strada nel mondo dell’arte italiano degli anni Sessanta.
Ha mai ricevuto supporto da gallerie, critici o collezionisti?
Il lavoro di Lucia Marcucci è stato apprezzato dal punto di vista della critica d’arte, penso ad esempio al precoce sostegno di critici come Renato Barilli e Gillo Dorfles, ma il sistema delle gallerie e del collezionismo erano poco aperti alle sperimentazioni radicali e politicamente impegnate della poesia visiva.
Riusciva a vivere tramite la vendita della sua arte oppure svolgeva nel frattempo altro lavoro (insegnamento, commissioni o altro) per arrotondare lo stipendio?
Lucia Marcucci svolgeva il lavoro di insegnante.
Quale donna artista, si è mai sentita in quel periodo in qualche modo limitata per quanto riguarda le possibilità di essere notata o di esporre le sue opere?
Marcucci, come dicevo, ha più volte ricordato la difficoltà per una donna di affermarsi nel sistema dell’arte, ma nel contempo si è sempre sentita alla pari rispetto ai suoi colleghi uomini ed è sempre stata restia a partecipare alle mostre di sole donne. Lo ha fatto solo in determinate circostanze, penso ad esempio ad alcune mostre curate da Romana Loda o alla mostra Materializzazione del linguaggio curata da Mirella Bentivoglio – altra artista italiana legata alla poesia visiva – nell’ambito della Biennale di Venezia del 1978. Ma Marcucci era diffidente nei confronti di queste rassegne, perché le riteneva una sorta di ghetto. Secondo lei questo genere di mostre non scalfiva la condizione di subalternità della donna, anzi, in un certo senso, la riaffermava. Per Marcucci le donne dovevano giocare alla pari con gli uomini, nonostante fosse ben consapevole delle enormi difficoltà incontrate dalle donne nella vita quotidiana e nel lavoro.
Cosa ne pensa oggigiorno di quella situazione e come percepisce il rinnovato interesse di pubblico e critica per il suo lavoro di quel periodo?
Lucia Marcucci guarda di buon occhio a questa fase di meritato riconoscimento critico. E’ un’artista che ha lottato tutta la vita, mantenendo sempre una grande coerenza nel suo lavoro, ed è un segno importante che oggi venga riconosciuta dalla critica e dalla storiografia nazionale e internazionale. Credo che in questo processo abbiano giocato un ruolo cruciale sia il crescente interesse nei confronti delle artiste donne di area non solo anglosassone, sia la recente rilettura critica che allarga i confini della Pop anche ad esperienze diverse, non egemoni e più politicamente impegnate, come, appunto, la Poesia visiva.
Le gallerie bresciane Galleria dell’Incisione e APALAZZOGALLERY rendono omaggio con due mostre parallele a Romana Loda, coraggiosa gallerista scomparsa nel 2010, che dagli anni Settanta ha svolto a Brescia un ruolo fondamentale nella valorizzazione dell’arte femminile.
“Le sue scelte curatoriali — scrive in catalogo Raffaella Perna — hanno contribuito a denunciare l’assenza delle donne nel contesto dell’arte italiana, e a porre in evidenza come tale emarginazione non fosse un dato naturale e immutabile, ma, viceversa, fosse legata a precise condizioni storiche, sociali e culturali”.
Prendendo spunto da “Coazione a mostrare”, prima mostra di sole donne organizzata da Romana Loda nel 1974, la Galleria presenta una scelta di lavori storici di:
Una selezione di artiste “che hanno esposto nelle numerose mostre curate da Loda, in spazi pubblici e privati o nella sua galleria, e che con lei hanno condiviso progetti artistici e spesso esperienze di vita. Ma che soprattutto, come lei, hanno avvertito l’urgenza di impegnarsi fino in fondo nel mondo dell’arte, in un momento storico in cui in Italia essere donna e artista, come confida Ketty La Rocca a Lucy Lippard nel 1975, era ancora «di una difficoltà incredibile»”.
Le mostre sono accompagnate da un catalogo con testo di Raffaella Perna.
Una selezione di più di centocinquanta fotografie e libri fotografici, provenienti dalla Collezione Donata Pizzi, per conoscere le più significative fotografe italiane dalla metà degli anni Sessanta a oggi.
La mostra, a cura di Raffaella Perna, propone una selezione di più di centocinquanta fotografie e libri fotografici provenienti dalla Collezione Donata Pizzi, concepita e costituita con lo scopo di favorire la conoscenza e la valorizzazione delle più significative interpreti nel panorama fotografico italiano dalla metà degli anni Sessanta a oggi.
In Italia l’ingresso massiccio di fotografe, fotoreporter e artiste nel circuito culturale risale agli anni Sessanta: in questo momento l’accesso delle donne al sistema dell’arte e del fotogiornalismo – ambiti rimasti a lungo appannaggio quasi esclusivo di presenze maschili – è favorita dai repentini cambiamenti sociali e dalle lotte femministe. Grazie anche alle conquiste di quella generazione oggi fotografe e artiste hanno acquisito posizioni di primo piano nella scena culturale del nostro Paese e in quella internazionale: il loro lavoro è presente in musei, gallerie, festival, riviste e pubblicazioni specializzate, in Italia e all’estero. Nonostante la decisa inversione di rotta, la storia e il lavoro di molte fotografe è ancora da riscoprire, promuovere e valorizzare: le opere della Collezione Donata Pizzi testimoniano momenti significativi della storia della fotografia italiana dell’ultimo cinquantennio; da esse affiorano i mutamenti concettuali, estetici e tecnologici che hanno caratterizzato la fotografia nel nostro Paese. La centralità del corpo e delle sue trasformazioni, la necessità di dare voce a istanze personali e al vissuto quotidiano e familiare, il rapporto tra la memoria privata e quella collettiva sono i temi nevralgici che emergono dalla collezione e legano tra loro immagini appartenenti a vari decenni e generi, dalle foto di reportage a quelle più spiccatamente sperimentali.
Lucia Marcucci – La ragazza squillo (1965)
Triennale di Milano – 5 ottobre 2016 | 8 gennaio 2017