Sebbene la partecipazione in qualità di soggetto attivo e consapevole alla razionalità storica sia una conquista che la donna è andata realizzando a partire per lo meno dalla seconda metà del secolo scorso, la storia ci ha tramandato da sempre figure femminili di primo piano. Ogni epoca di ogni civiltà ha offerto nomi di eroine, regine, mistiche, di donne distintesi nelle arti e nella letteratura. Nomi ai quali la tradizione ha dato anche una veste iconica che, nella maggior parte dei casi, si è iscritta saldamente nella nostra cultura visiva e letteraria. È questo, segno di una contraddizione. Un’analisi minuziosa porterebbe forse al risultato sorprendente che le figure femminili hanno ispirato l’arte e la letteratura in misura molto maggiore delle figure maschili. Ma in realtà questa non sarebbe che una lettura superficiale. Mukarovsky¹ ha descritto la funzione estetica (o letteraria) come una «capacità di isolamento», dell’oggetto da essa toccato, quindi, di un fattore, in ultima analisi, di differenziamento sociale. L’attenzione dell’artista, dello scrittore (particolarmente nel periodo umanistico-rinascimentale) si appunta pertanto sull’evento eccezionale, che esce dalla norma, ed è per questo verso emblematico, simbolico. La rappresentazione della donna nell’arte e nella letteratura non è perciò una reale e diretta rappresentazione della donna, ma di quei valori e significati “eccezionali” ed eccezionali in quanto costituiscono la coesione ideologica del sistema sociale che li produce, che la donna soltanto, proprio per l’assenza della storia come soggetto reale, può raffigurare. Insomma se l’uomo fa la storia in concreto, la donna, in quanto le è negato tale diritto, viene chiamata a rappresentare le grandi finalità della storia, quelle finalità che l’uomo non può rappresentare perché “contaminato” con la storia concreta. La donna perciò si ritrova simbolo oggettivato in un universo di significati creati e disposti dall’uomo.
Intorno al terzo decennio del secolo scorso si afferma in America e in Europa la rivoluzione industriale. La capacità produttiva delle industrie, accresciutasi con l’intervento delle macchine, l’ampliarsi dei mercati, l’afflusso di nuove materie prime in seguito alle espansioni coloniali richiedono un considerevole aumento di manodopera. È a questo punto che la donna entra in misura massiccia nell’apparato produttivo, è ora che essa comincia a formarsi e a riconoscersi come massa. Riconoscendosi come massa la donna si riconosce come soggetto storico. Ma nel contempo «il rapporto fra i sessi – afferma Kate Millet – è politico e conferisce all’uomo il dominio sull’intera cultura sociale, subordinando la donna ad una situazione di dipendenza classista nello stesso modo che una potenza coloniale opprime e sfrutta la popolazione indigena. Sarà impossibile sapere con certezza se tra uomini e donne esistano reali differenze biologiche fino a quando i sessi non verranno trattati in modo diverso, cioè uguale».²
È anche vero che il fuoco dell’oppressione è individuato nella famiglia, in quanto è in essa e da essa che viene definito il ruolo della donna come sposa e madre, ma occorre collocare la famiglia nel contesto sociale più vasto, non solo come mancato fornitore di servizi, ma come esigente quel particolare tipo di famiglia e quella particolare forma di divisione del lavoro e dalle funzioni di essa, che oggi non è più identica a quella propria della famiglia patriarcale. L’emarginazione sociale delle donne è richiesta da una società capitalista fondata sulla mobilità e produttività individuale e sulla progressiva depoliticizzazione dei suoi membri, alla cui espressività è lasciato solo lo spazio “privato” sempre più enfatizzato. È chiaro che chi risente in maggiore misura di questa emarginazione sono le donne istruite della classe media, coloro cioè che per educazione e appartenenza di classe si sentono in diritto di partecipare alla gestione della società. Quando una cultura crea una situazione di questo genere: da una parte la classe maschio-politica dirigente preoccupata soltanto di mantenersi al potere e quindi di chiudere ogni canale di ribellione ritenuto pericoloso (l’immaginazione femminile) dall’altra gruppi intellettuali di apparente opposizione (il maschio femminista) che a loro volta controllano la situazione che li riguarda direttamente, usando gli stessi sistemi della classe dirigente, allora si stabilisce quella che si può definire una paralisi, uno stallo; si verifica impossibilità d’infiltrazione, si verificano aree di ghettizzazione. La mistica della femminilità e il consumismo sono due importanti facce di questo fenomeno.
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¹ J. Mukarovsky, Il significato dell’estetica, Torino, Einaudi, 1966.
² K. Millet, «Sexual Politics», in W. O’Neill, The Woman Movement. Feminism in the United States and in England, London, 1965.
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