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Molti collezionisti, qualche gallerista e alcuni giovani critici chiedono ancora l’iter più privato, anche individuale, di questa poesia totale e segno totale (Achille Bonito Oliva in occasione della presentazione in catalogo della mostra La parola nell’Arte al MART di Rovereto 2007) che si configura come poesia visiva. L’iter della poetica può apparire abbastanza scontato: rivisitazione e proseguimento delle sperimentazioni futuriste, dadaiste, costruttiviste, dei primi anni del novecento ma, e questo è l’innovazione, il tutto da contaminare e veicolare decriptandolo attraverso la presa di coscienza del contesto mediatico imperante nel preciso momento fattuale. Il momento storico è situato ai primi anni del ’60 nei quali il boom economico mise la società davanti alla scelta del consumismo ebete e consolatorio e/o dei movimenti di ribellione critica agli stessi, in più la ancora latente guerra nel Vietnam con le conseguenze politiche che cominciavano ad affiorare nella comunità globale non ancora consapevole dei risultati tragici che avrebbe portato. Da ovest a est la guerra fredda si andava scaldando… la guerra dei bottoni e del primo dito che avesse premuto quello rosso viaggiava sul filo delle comunicazioni telefoniche. Certamente il clima politico era estremamente caldo: dovevamo scegliere su quale carro armato montare, non di sicuro con i fucili, ma con le testimonianze e le idee. Ci trovammo di ciò consapevoli e convinti: fare la nostra rivoluzione artistica e letteraria fu il programma contenuto nel manifesto che compilammo e che perseguimmo con le opere tecnologiche, poi con la poesia visiva.

Il Gruppo ’70 si costituì a Firenze nel 1963 dopo vari contatti, convegni e dibattiti avvenuti al Gabinetto Viesseux, al Forte Belvedere, nei vari circoli culturali e Case del Popolo dove tenevamo anche happenings per compagni con tessera e dove scandalizzavamo gli stessi con frasi, atteggiamenti e dichiarazioni non proprio in riga con i dogmi del PCI. Sapevamo che per la base degli iscritti gli intellettuali erano sospetti e, di conseguenza, poco graditi; noi cercavamo di stuzzicarli per promuoverne l’impegno in un più ampio universo critico-culturale perché, anche a quei tempi, risultava un po’ sopito. Disdegnavamo Lukásc ma discutevamo appropriandoci di citazioni dai testi di de Saussure, Marcuse, Benjamin; la semantica e l’ostranenje erano i nostri cavalli di battaglia, l’interdisciplinarità e, di conseguenza il meticciato, i nostri cibi mentali quotidiani. Non mancavano i furibondi denigratori armati di una salace vena ironica e iconoclastica tanto ardita da cambiarci, sul luogo, le opere in mostra con scritte e collages artificiosi e fasulli (devo averne un esempio che ho conservato cimelio-ricordo di una stagione irripetibile), perfino ai nostri cognomi venivano aggiunte rime e sollazzi; una nutrita serie di lettere anonime siglate il triangolino verde ci perseguitò per alcuni mesi… gli autori erano quattro avvocati nullafacenti in vena di scherzi. Presto uscimmo dal clima provinciale di Firenze: iniziammo a ricevere moltissimi inviti di partecipazione a mostre, dibattiti, convegni nazionali e internazionali.

Tutte esperienze dalle quali si è via via consolidato il mio lavoro permettendomi, mantenendo costantemente la stessa poetica, di intraprendere nuove tecniche e sperimentazioni. Non sempre mi sono avvalsa del collage cartaceo ma neanche l’ho abbandonato: per la mostra Supervisiva preparai numerosi bozzetti che furono variati con le più aggiornate tecnologie computeristiche; una nuova, coraggiosa svolta della mia opera. Nel tempo (intorno agli anni ottanta) ho anche usato tele spaziose che chiamavo maxipagine dove riproducevo in colori acrilici icone dei media, poi grandi cartelloni pubblicitari su tela manipolati ad arte per rimandare, cambiato di segno, lo stravolto messaggio al mittente con esiti abbastanza spiazzanti e talvolta curiosi. La voglia di sperimentare non mi viene mai meno: non ho mai sopportato di ripiegarmi su me stessa riproducendo all’infinito ciò che magari avrebbe chiesto il mercato. Sono andata libera da ogni condizionamento per lasciarmi ampi margini di gioco in cui chiudevo il momento causa di ogni esperienza d’opera e, ogni volta, era una sorpresa: il fine talora mi entusiasmava e continua a entusiasmarmi.

Il tema romantico della poesia (1974)

Many collectors, a few gallery owners and even some young critics still a about the more private, even individual, course of this total poetry and total sign (Achille Bonito Oliva, in the introduction in the catalog of the La parola nell’Arte show at the MART in Rovereto 2007) that emerges as visual poetry. The course of the poetics could appear somewhat predictable: revisitation and continuation of the Futurist, Dadaist, Constructivist experiments of the early years of the twentieth century, but – and here lies the innovation – all to be contaminated and channeled, decodifying it, through awareness of the media context dominant at the precise factual moment. The historic moment is the early Sixties, when the economic boom posed society the choice between obtuse and consoling consumption and/or movements of revolt critical of the same, in addition to the latent Vietnam war with the political consequences that began to surface in the global community not yet aware of the tragic results it was to lead to. From West to East the Cold War was waming up… the war of the buttons and of the first finger that was to press the red one travelled along the telephone lines. The political climate was certainly extremely warm: we had to choose which tank to clamber onto, obviously not with rifles but evidence and ideas. We were conscious and convinced: making our artistic and literary revolution was the program contained in the manifesto we drafted and pursued through the technological works, and then with the visual poetry.

The Gruppo ’70 was set up in Florence in 1963 after various contacts, conferences and debates held at the Gabinetto Viesseux, at the Forte Belvedere, in the various cultural circles and Case del Popolo where we also ran happenings for card-bearing comrades where we scandalized them with words, attitudes and statements that were not exactly in line with the dogmas of the PCI. We knew that for the grass roots members intellectuals were suspect and hence unwelcome; we sought to goad them, to stimulate engagement in a broader critical-cultural universe because, even at that time, it was somewhat subdued. We spurned Lukács, but we peppered our debates with quotations from de Saussure, Marcuse and Benjamin; semantics and ostranenje were our war-horses, interdisciplinarity, and consequently cross-breeding, our mental daily fare. Naturally we did come up against cases of enraged disparagement and people armed with such a pungent and iconoclastic irony that they would even modify the works on show, there and then, with bogus and artificial legends and collages (I must have some examples tucked away somewhere as mementoes of a truly unrepeatable time). Sometimes even our surnames would be adorned with rhymes and sneers. We were persecuted for several months by a whole series of anonymous letters signed the green triangle… the authors turned out to be four layabout lawyers in the mood for a laugh. Soon we got away from the provincial climate of Florence, and we began to receive lots of invitations to take part in shows, debates and national and international conferences.

All these experiences gradually went to consolidating my work, enabling me – while constantly maintaining the same poetic – to undertake new techniques and experimentations. I didn’t always use paper collage, but nor did I abandon it. For the Supervisiva exibition I prepared numerous sketches which were varied with the most up-to-date computer technologies; a bold new twist in my work. Over time (around the Eighties) I also used big canvases that I called maxipages where I reproduced media icons in acrylic colours, and the big advertising hoardings on canvas, artfully manipulated to return to sender the, reversed, distorted message, with disturbing and at times curious results. My desire to experiment has never faltered: I’ve never been able to bear the idea of resting on my laurels and repeating ad infinitum maybe what the market wanted. I have always kept free of conditioning, leaving myself ample leeway in which to encapsulate the causal moment of each artwork experience, and every time it was a surprise: I found the end exhilarating at times, and I still do.

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