All’improvviso si manifestarono strani fenomeni: il cielo giallo e verde, le nuvole a pois, niente alito di vento, tutto immobile, raggi di luce uscivano dai punti neri delle nubi ed erano plumbei, violacei, a tratti di un rosso accecante. Pochi uccelli volavano spaventati, le loro ombre disegnavano sui prati marroni particolari forme, fantasmatiche e orride. I picchi dei monti si stagliavano sul colore insolito; nelle valli, per gli spettrali sentieri, Frankenstein poteva apparire da un momento all’altro; di certo non dovevano mancare, in lontananza, castelli gotici dai sotterranei profondi e panciuti frati neri che stavano rincorrendo, ansimando, candide fanciulle fuggitive. Mary Shelley se ne stava seduta vicino alla finestra guardando perdutamente il paesaggio, i suoi giovani anni non le permettevano razionali meditazioni ma improvvise passioni che le arrossavano il discreto visetto; nel mentre scriveva alcune frasi erotiche s’infiammava violentemente e subito scoloriva al pensiero tormentoso degli amori di suo marito con Byron; componeva, spezzava e ricomponeva la sua macabra creatura con pezzi di cadaveri che forse le ricordavano i suoi sogni e i suoi desideri: i due amanti peccaminosi già decomposti nei sudari. Teneva rancore, molto rancore: la gelosia l’attanagliava ma consapevole della sua inadeguatezza non aveva di meglio che sfogarsi con l’immaginazione… Walpole era stato il suo maestro, dunque per Mary era ancora molto gustoso rievocare brani del The Castle of Otranto, i corridoi bui e le scale a chiocciola con enormi ragnatele le erano oltremodo familiari, i misteri e i fantasmi avevano allietato e nutrito la sua infanzia ed ora metteva a frutto tutto ciò. Esorcizzava così l’inappagato appetito sessuale.
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