Un’altra volta c’era un Uomo che non sapeva come riempire il suo ozio altro che con qualche viaggio ai confini delle sue terre che, in quanto ricchissimo, erano di notevolissime estensioni. Verificava ansioso se qualcuno avesse messo piede con qualche cosuccia sulla sua terra e se ciò accadeva anche trovando un barattolo vuoto di Coca-Cola o un mezzo cono di gelato smangiucchiato se ne andava su tutte le furie e si mangiava il fegato dalla rabbia. Non pensava che a questo, tutta la sua ricchezza non gli era di conforto: era aspro con la moglie, con i figli e con tutti quelli che lo circondavano; il disgraziato rischiava di morire di cirrosi o di cancro ma continuava imperterrito nella sua lucida follia. Viveva in un universo parallelo confidante nella resurrezione e nel punto Omega, fedele alla fisica moderna, ai limiti dell’improbabile, certo dell’eterno ritorno e del superuomo Übermensch. Ma il suo fegato si ribellava alla ragione e continuava a soffrire le piccole asperità quotidiane, meschine e incolte. I confini del suo immenso territorio dall’Arabia Saudita a New Orleans, dal Laos alla Grande Muraglia cinese erano continuamente violati da una società primitiva: il mito greco di Sisifo lo tormentava, ogni violazione corretta veniva subito di nuovo ripetuta e così all’infinito. Un giorno incontrò un omino tutto raggrinzito dal sole che cantando calpestava la terra verboten; per un po’ stupito dal gorgheggio, lo lasciò fare, anzi si mise a sedere su un masso a guardarlo e ascoltarlo: l’omino cantava l’amore, le dolcezze della vita, il flebile pianto di suo figlio e gli occhi azzurri della sua compagna. A queste cose il Ricco mai aveva dato importanza, mai si sarebbe sognato di notarle, di farle memorizzare dalla sua mente o ancora peggio, riporle nel suo cuore. Continuò a essere incantato da quella voce, piano piano s’incurvò, cadde dal masso, si arrotolò come un serpente e spirò sul limitare dei suoi confini.
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