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Non c’erano motivi per restare insonne, nonostante ciò le notti si riducevano drammaticamente: dormivo appena tre ore. Mi domandavo perché ed era un circolo perverso, il cervello mi andava ramingo per infiniti labirinti in cerca di una causa, ma invano. Allora ripercorrevo le tappe importanti della mia vita soffermandomi ai particolari e sforzandomi di ricordarli nei colori, nel calore degli ambienti e perfino negli odori: a folate mi giungevano quelli dell’erba tagliata, delle violacciocche, del grano maturo, degli oleandri, della resina dei pini, della terra e dell’asfalto bagnati dalla pioggia, ancora il profumo del caffè, della cioccolata, della cera sul legno antico. Gli ambienti mi apparivano colorati da toni rosati e scaldati da fonti pseudo-naturali: stufe di maiolica smaltata, caminetti in marmo peperino, larghi bracieri fumanti. Gli attori non erano così ben definiti… quasi sfumavano immersi in una nebbia violacea, mi era molto difficile fermarli intorno a me, fluttuavano e si succedevano come in una ridda: li chiamavo a uno a uno e nominandoli si soffermavano cominciando a reinterpretare l’evento.

Erano così importanti questi avvenimenti? Durante le mie veglie notturne acquistavano un enorme significato, tale da sconvolgere il programma del giorno a venire. Però fortunatamente spesso, alla mattina, svanivano lasciandomi esausta ma libera. Cominciavo così il nuovo giorno non solo lavata sulla pelle dalla breve doccia mattutina ma anche dentro, il cervello sgombro da elucubrazioni e problemi, innocentemente coraggioso per la nuova, a volte disastrosa, giornata. L’ottimismo guariva tutte le piaghe che via via si formavano nella fatica quotidiana e, anche se saltellante a mo’ di grillo, fino a sera infaticabilmente ridanciano. Humor e sano distacco dalle tragedie che solamente un bigotto cretino crede, con fede cieca, di poter esorcizzare, guadagnandosi il paradiso brandendo l’obolo per il mendicante, l’opera mediocre per l’asta benefica, il ciao per il nero claudicante-replicante, la visita pietosa alla vecchietta, le lacrime al funerale di turno e così via. Niente di tutto questo rito consolatorio ma solo crudele voglia rivoluzionaria degl’inferi e tanta di caldo fuoco bruciacchiante le interiora. L’arte si alimentava di questo cibo fatto di miscugli contraddittori, di esaltanti progetti folli, irrazionali, fantastici che non avevano né capo né coda, erano solo vogliosi di mettere giù qualcosa; questo qualcosa che sorprendentemente si concretizzava in una bellissima opera cotta al momento giusto.

(Gli avvenimenti, dai quali certamente derivava il mio lavorio nella categoria degli artistimatti, si trovavano sparsi negli anni dell’infanzia e della pubertà, più diradati nella successiva età perché filtrati attraverso una razionalità talvolta rigorosa, talvolta consapevole della trasgressione progettata, attuata voluttuosamente e appassionatamente. Ma quali avvenimenti se sono nella maggior parte svaniti dalla memoria? Eppoi chi se ne importa! Chi potrebbe essere interessato alla narrazione di essi? A cosa potrebbe servire elencarli cronologicamente? Domando e dico, dico e domando: questa frase martella spudorata nel cervello come fosse base per la mia formazione intellettiva e operativa. L’arte della retorica sapeva nominare ogni frase: ossimoro, palindromo, litote, sineddoche, metatassi, pleonasmo, ecc. ma non aiutava più di tanto alla realizzazione dell’opera. Le nozioni scolastiche tornavano minacciose a inquinare la successiva cultura scelta autonomamente ma presto, fortunatamente, erano seppellite in un mare di ironia che però, forse per vendetta, prendeva talmente possesso che lo scrivere diveniva sempre più osteggiato, che dico, proprio aggredito e sbaragliato. La parola balbuziente a fatica emetteva un suono, che suono? Respinta dalla mente e dalla tastiera, la display bianca, vuota: tutto lo scritto non avrebbe potuto replicare pena la cancellazione. Avveniva la reazione: forte, compressa, relativamente ruffiana ma che, tuttavia, riportava alla fattività non poi tanto limitativa, anzi, reduce da astinenza, era ancor più vogliosa di concretizzare. Riprendeva così il lavoro quotidiano che procedeva attraverso prove ed errori, prove ed errori, prove ed errori…

Poiché non tutto riesce alla prima stesura, l’affanno era il disfare non il correggere, l’opera doveva proprio essere cancellata dalla vista e dalla mente, dimenticata a oltranza altrimenti poteva riaffiorare danneggiando la successiva. In tutta questa intensa fattività si accumulava e si stratificava la cosiddetta professionalità cosicché un banale collage si rivelava intriso di significati, di rimandi, di memorie, alla fine sintesi e fonte di forte rimescolamento culturale.

Le insonnie si producevano spesso con il rimuginare del perché ero artista e del perché me lo domandavo: questo mi rimandava all’imprinting costringendomi alla ennesima rivisitazione del contesto familiare, una fissazione dalla quale non uscivo: domando e dico, dico e domando. La fotografia era l’arte d’avanguardia che sperimentava mio padre, ma non solo quella, anche l’elettricità, la chimica, la botanica, la meccanica, i libri dei più spericolati letterati, dei filosofi e insomma tutto ciò che più moderno c’era, era lì, in casa a portata di mano, il movimento dei futuristi compreso (Lacerba, i manifesti, i libri di Marinetti, di Gargiulo, i disegni di Dottori, ecc.). Nella stanza da studio stavano i libri, le fotografie, insomma le cose più nobili, ma nella stanzaccia di tutto: i residui delle bobine, dei trasformatori, dei bulbi e delle talee da innesto, degli alambicchi per uso misterioso, polveri di ammonio, pirite, fogli di mica, fili di rame, alluminio, zolfo, ecc. ecc., non mancava niente: l’immaginazione correva incantata fra la bachelite e il filo elettrico, fra il vascolo e la grande vecchia macchina fotografica ancora sul treppiede con dentro la lastra, il lungo pulsante della posa e il telo nero penzolante. Nella stanzaccia c’era perfino l’altalena ma dovevo aprire la porta-finestra per farci i miei voli; voli che presto compresero i giochi d’arte o ciò che chiamavo divertimenti nonsense…: scandalizzavo gli amici con scarabocchi e frasi di cui andavo orgogliosa.

Quando si concretizzò la poetica che perseguo da tanti anni? La consapevolezza arrivò piano, alla fine degli anni cinquanta, con la frequentazione dei testi teatrali dei vari Beckett, Dürrenmatt, Ionesco, degli espressionisti tedeschi, e Joyce, de Saussure, Benjamin; la presenza sempre più preponderante dei media, del linguaggio filmico e televisivo, la noiosa seriosità di alcuni autori e lo spiazzante gergo pubblicitario, quel qualcosa che invogliava a mescolare, in un primo momento sebbene diviso, subitaneamente rapportato e manipolato. Ecco scaturire il linguaggio verbo-visivo: poesia tecnologica e poesia visiva. Alla fine di questo percorso l’incontro con alcuni degli intellettuali fiorentini, quelli che sperimentavano (che coincidenza!) i vari linguaggi dei mezzi di comunicazione di massa.

Il clima culturale fiorentino era conformista-provinciale-bottegaio, in più, proprio per non coltivare speranze, sventolato con presunzione e arroganza: molti di questi illusi, poveri di spirito, s’aspettavano il Nobel! Orribile in tutti i sensi. Ma questa palude stigia dava la carica per una reazione, una forte carica atta a sconvolgere, combattiva più che mai, pronta a capovolgere qualsiasi affermazione dei suddetti e dintorni. Ciò avvenne, non senza lacrime, non senza furiosi e pungenti chiacchiericci, non senza spargimento per strada di ex amici, ma avvenne! Dalla palude all’avanguardia: le acque furono mosse.

Firenze 30 marzo 2008

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