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Solleticando il cielo con forbite bestemmie, non facendo distinzione fra i vari nomi del mono, il viandante mezzo cieco, anzi parzialmente vedente, alternava la sua veemente preghiera con strimpellate disarmoniche – musica naïf atonale – percorrendo a balzelloni uno stretto sentiero di montagna incurante dei vari precipizi; il suo banjo gli ciondolava pericolosamente ma lo riprendeva per suonarci quelle strampalate note con il suo dito mozzo. Dall’unico occhio dardeggiava un’incontenibile felicità tanto era consapevole della totale libertà di cui godeva: niente lo legava a persone, a ricordi, a beni mobili e immobili, a doveri verso lo stato, verso la telefonia anch’essa mobile e immobile, verso banche, canoni, contravvenzioni, biglietti di lotterie, assicurazioni e scadenze. Non aveva meta, passo dopo passo, di giorno e di notte, con il vento, il sole, la pioggia, neve e ghiaccio, saltando e saltellando; neanche la fame, neanche la sete, oramai bisogni remoti, superati con strenuo allenamento in gioventù, gli potevano rovinare la completa beatitudine: il percorso nello stretto ma infinito sentiero gli sembrava coperto di soffice bambagia, lo strapiombo un azzurro vortice, la neve una nuvoletta calda e rosea, non gli mancavano nemmeno le ali che gli stavano spuntando velocemente dietro la schiena.

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